Il 23 maggio si è ricordata la strage di Capaci che ha portato alla morte di Giovanni Falcone, il giudice impegnato nella lotta alla mafia, della moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicilio e Antonio Montinaro.
Quel giorno di 30 anni fa, mentre il corteo della scorta con a bordo il giudice e la moglie passava sull’autostrada A29, nei pressi di Capaci, avvenne un’esplosione causata da 500 kg di tritolo piazzati da Cosa Nostra, l’organizzazione mafiosa presente in Sicilia gestita allora da Totò Riina.
La mafia dichiarò guerra allo Stato Italiano attraverso gli attentati di Falcone prima e di Borsellino poi, i quali capirono che per colpirla bisognava attaccare i loro capitali, come aziende e patrimoni immobiliari.
Giovanni Falcone è cresciuto a Palermo e conosceva il suo destino. In un’intervista infatti aveva detto: “Il mio conto con Cosa Nostra resta aperto. Lo salderò con la mia morte, naturale o meno. Buscetta mi aveva messo in guardia: prima cercheranno di uccidere me, ma poi verrà il suo turno”.
Grazie al maxiprocesso del 1986, la mafia divenne una mappa fatta di nomi, organigrammi, flussi di capitali, investimenti e protezioni politiche.
Per questo Giovanni Falcone doveva morire per primo.
Sono passati 30 anni dalla strage di Capaci e dopo molte inchieste ancora oggi si cerca di capire chi siano i mandanti di quel terribile attentato.
Ogni anno ci sono molte commemorazioni, ma se veramente volessimo omaggiare il lavoro di Giovanni Falcone, dovremmo impegnarci seriamente per sconfiggere le mafie lottando contro il crimine organizzato e la corruzione. Ogni singolo cittadino con i propri mezzi e le proprie forze dovrebbe dare il suo contributo, unendosi ai grandi sforzi compiuti dallo Stato. Falcone sosteneva che “non si può sconfiggere la mafia chiedendo l’eroismo dei cittadini”, ma a volte anche il più piccolo gesto può essere utile.
Martina Modena 5C