Diamo avvio ad una nuova rubrica “Internazionale” curata da Margaux Ridolfi, sarà il nostro sguardo sul mondo.
Dopo due lunghi decenni di guerra, i talebani hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan. In poche settimane il gruppo armato ha completato la sua rapida avanzata assumendo il controllo di tutto il paese, capitale compresa, il 15 agosto 2021.
Questa rapida ripresa di controllo è stata facilitata dal ritiro delle forze internazionali previsto nell’accordo di Doha sottoscritto nel febbraio 2020 tra americani e talebani.
In origine questo accordo prevede che in cambio del ritiro delle forze statunitensi, i talebani accettino tre condizioni: dichiarare un cessate il fuoco; impedire che i gruppi terroristi usino l’Afghanistan come una piattaforma per lanciare attacchi all’estero; cominciare a parlare direttamente al governo di Kabul, cosa che fino a quel momento si erano rifiutati di fare poiché consideravano poco credibili il presidente Ghani e i suoi ministri.
Ora i talebani, dopo aver instaurato il nuovo regime teocratico, chiedono il riconoscimento del proprio governo a livello mondiale. Ma da quando le forze internazionali hanno lasciato il suolo afghano, i talebani non hanno instaurato il dialogo con il governo di Kabul ed hanno invece accelerato la loro avanzata, provocando la fuga del Governo. L’intero paese è quindi caduto in uno stato di terrore e di forte crisi.
Il dramma afghano: i numeri
Una ricerca della Brown University stima le perdite nelle forze di sicurezza afghane a 69.000 uomini, mentre il numero di civili e militanti uccisi si stima essere circa 51.000 ciascuno. Dal 2001 sono morti più di 3.500 soldati della coalizione, circa due terzi dei quali americani. Più di 20.000 soldati statunitensi sono rimasti feriti.
La crisi ha generato milioni di sfollati. Secondo le Nazioni Unite, l’Afghanistan ha la terza popolazione sfollata al mondo. Dal 2012, circa cinque milioni di persone sono fuggite e non hanno potuto tornare a casa, sfollate all’interno dell’Afghanistan o rifugiatesi nei paesi confinanti, specialmente Pakistan.
Per le donne afghane le condizioni di vita diventano sempre più critiche
Nei vari reportage pubblicati recentemente, la paura instauratasi da metà agosto è palpabile. Da quando sono state presidiate le città afghane, molte cose sono cambiate specie per le donne e le giovani ragazze.
Le ragazze di Kabul, quelle che hanno già terminato il ciclo di istruzione elementare, si ritrovano chiuse in casa. Per strada se ne vedono camminare poche, diffidenti, impaurite e sempre accompagnate.
Dopo il cambiamento di regime era inevitabile che ci fossero ripercussioni nella sfera assai complessa dell’istruzione.
Perciò non c’erano state grandi reazioni quando erano tornati in classe solo i bambini delle elementari, maschi e femmine. Come loro, milioni di ragazze e ragazzi aspettavano di partecipare nuovamente alle lezioni, ma la legnata alle ragazze afghane è arrivata quando i talebani hanno annunciato la riapertura delle scuole superiori. È stata pubblicata una nota dove si è chiesto agli insegnanti e ai loro studenti maschi di tornare immediatamente a scuola, ma in questa nota non si è spesa una sola parola sulla sorte delle studentesse e delle docenti.
Niente notizie o comunicazioni, o peggio ordini. I talebani non si sono nemmeno preoccupati di scrivere due righe a riguardo.
Come dice il giornalista Brera de La Repubblica, il nuovo regime non ha detto che le studentesse non debbano tornare a scuola, né che le insegnanti non debbano insegnare. Non le hanno semplicemente nominate, senza chiarire se sia una scelta definitiva o un rientro posticipato.
Le studentesse di Kabul sono furiose e terrorizzate allo stesso tempo. A loro è stato tolto tutto: la scuola, le amiche e compagne, la libertà personale.
Non si può più parlare apertamente di temi sociali; le ragazze ora sono terrorizzate; nessuna esce se non è accompagnata da un uomo; nessuna è più inserita in un progetto di studi; pochissime hanno accesso Internet perché la bolletta è troppo cara.
Le docenti non sono da meno; sono in un limbo, ogni giorno i talebani dicono qualcosa che peggiora la loro condizione. Oggi hanno la consapevolezza di esserci, ancora vive, a Kabul, ma non hanno idea di cosa le aspetta nei giorni a venire.
I talebani sono contro l’istruzione, specie quella femminile perché una donna istruita è cosciente dei propri diritti. I talebani vogliono invece persone ubbidienti, non con la mente aperta, cosa che rappresenta un’arma potente.
Molinari, direttore de La Repubblica, in un recente articolo, esprime la propria opinione riguardo questo “credo” talebano. Come riportato sul quotidiano, egli afferma che vietare, ostacolare la parità di istruzione delle donne solo in quanto tali è una barbarie perché trasforma il razzismo di genere in leggi e regolamenti portatori di discriminazione permanente, condannando le vittime a una condizione di ignoranza, analfabetismo, sottomissione e isolamento nella società a cui appartengono.
La brutalità dei talebani non si limita solo alla scuola. Come già accennato anche la libertà personale, fisica, il volere delle donne sono in pericolo. Le donne afghane non possono lavorare. Questo perché quando si presentano nei luoghi di lavoro, si trovano davanti un esponente del nuovo regime che le “invita” a tornare a casa. Le donne nubili o vedove sono perseguitate. I talebani le cercano casa per casa, durante le ore della notte, e minacciano loro e le famiglie di catturarle al fine di consegnarle ai combattenti della guerra santa islamica, i mujaheddin.
Queste “cacce alla donna” innescano una paura collettiva che porta molte donne a darsi alla fuga, cambiare identità, residenza e recapiti nel tentativo di scampare a nozze obbligate, stupri e ad una condizione di schiavitù sessuale. Guai a chi osa ribellarsi. Quando le vittime designate della repressione di questo nuovo regime trovano il coraggio di protestare vengono picchiate dai talebani in mezzo alle strade, aggredite con gas lacrimogeni, spray nocivi, colpite con i calci di fucile e bastoni di metallo.
La vita in Afghanistan è cambiata radicalmente. Oggi essere una donna in Afghanistan significa doversi nascondere. Mai usare il proprio nome se si scrive qualcosa. Bisogna stare a casa e rassegnarsi. Per le donne soffia un vento gelido di condanna. I talebani non hanno pietà, a loro non importa dell’emancipazione o delle libertà delle donne. Chi non si sottomette, ha le ore contate.
Le reazioni dell’Occidente. Bonino: “non possiamo permettere che si spengano i riflettori su Kabul. L’ONU lanci una Commissione”
La senatrice in un’intervista con il quotidiano la Repubblica si esprime sulla situazione in Afghanistan e chiede che l’Onu lanci una Commissione sui diritti delle afghane.
Tra le pile di documenti sottolineati e sparsi sul tavolo da pranzo della sua abitazione, Bonino mostra al giornalista Bei l’accordo di Doha. “Questo è l’accordo di Doha, quello tra americani e talebani. Non è segreto, lo può scaricare chiunque. Sono quattro pagine e non c’è nemmeno una riga sui diritti umani o sulle garanzie per le donne. Zero, si parla solo di terrorismo e, al massimo, si chiede un governo inclusivo […]”.
La senatrice risponde a tutte le domande che il giornalista le pone, racconta di come in loco siano rimaste solo le agenzie Onu e le poche ONG come Emergency e Croce Rossa. Ella ritiene che la prima cosa da fare è attivarsi per tenere alta l’attenzione e non abbandonare quelle donne che alla partenza dei giornalisti rimarranno sole di fronte ai talebani.
Espone anche le sue idee, elaborate in parte con le organizzazioni attive sul territorio, per una Commissione internazionale di monitoraggio sui diritti umani che dovrebbe nascere dal Comitato per i diritti umani di Ginevra. Sostiene che qualcosa si è messo in moto e che abbiamo la fortuna, in Italia, di essere fino a dicembre membro a rotazione del Comitato per i diritti umani, ma che ciò non basta.
Nonostante poche settimane fa sia stato firmato il Joint Statement da 47 Stati membri i quali chiedono l’istituzione della Commissione, nulla è ancora fatto poiché per far sì che questo Statement diventi operativo, esso deve essere trasformato in una risoluzione.
“In mano abbiamo solo due strumenti molto fragili per fare pressione sul nuovo governo: il non riconoscimento internazionale e la Commissione di monitoraggio sui diritti umani” continua la senatrice. Nonostante la loro fragilità, Bonino tiene a precisare che questi strumenti non vanno nemmeno sottovalutati: “Nel 98, quando ero commissaria Ue per i diritti umani, riuscimmo a bloccare il riconoscimento dei talebani e tutta l’Europa ci seguì”.
È dunque importante intervenire, mantenere alta la pressione mediatica sul paese e far capire loro, donne e giovani ragazze, che siamo uniti contro questi abusi e ingiustizie. Nella nostra società stiamo ancora lottando per i diritti delle donne, perchè la parità di genere sia pienamente realizzata. Sarebbe quindi una grave contraddizione accettare passivamente che questi diritti vengano violati in altri paesi.
Margaux Ridolfi, 5A