Il manicomio
Il manicomio è una grande cassa di risonanza e il delirio diventa eco l’anonimità misura il manicomio è il monte Sinai, maledetto, su cui tu ricevi le tavole di una legge agli uomini sconosciuta.
Il manicomio, per Alda Merini ha sempre rappresentato un luogo buio e pieno di tristezza, con il quale ella stessa si è dovuta rapportare più volte lungo l’arco della sua vita. La poetessa è stata ricoverata in ospedale psichiatrico per ben tre volte: la prima all’età di sedici anni, la seconda dal 1964 al 1972 nell’istituto Paolo Pini di Milano, e la terza a Taranto nel 1986. Prima di tutto, perciò, al fine di poter comprendere la poesia, bisogna entrare all’interno della mente di Alda. Una mente a tratti geniali e a tratti folle, influenzata dal disturbo che le è stato diagnosticato, ovvero quello di tipo bipolare. La scrittrice descrive in questa poesia il manicomio come un contenitore vuoto, una cassa di risonanza, dove qualsiasi cosa venga espressa viene moltiplicata mille volte, dove il delirio diventa eco e quindi ritorna ancora più forte e di conseguenza provoca ancora maggiore dolore. All’interno di questa cassa di risonanza non si è nessuno, si è un anonimo, il quale rimane lì fermo a subire il proprio dolore che gli viene inflitto ancora e ancora all’infinito. Non c’è nessuno per te, intanto sei nessuno, a chi importa di te? E in questo modo continui a crogiolarti cercando di curare qualcosa dal quale tu stesso sai che non puoi fuggire. Da qualcosa con cui convivi fin dalla nascita e che ti porterai fino al momento nel quale non sarai altro che un corpo morto all’interno di una cassa di legno. Non troverai la pace lì dentro, e neanche la cura alla tua malattia, ma puoi imparare a conviverci, è questo quello che bisognerebbe fare. A questo punto Alda paragona il manicomio al monte Sinai, uno dei tanti simboli della religione cristiana, luogo dove ti vengono consegnate le cosiddette “regole” al fine di “curare” la malattia. Ma quello su cui ci dobbiamo concentrare non è il paragone fatto dalla poetessa, bensì gli aggettivi che lei stessa attribuisce al manicomio. MALEDETTO, una parola dura, senza alcuna pietà. Alda vede il manicomio come un luogo dal quale non può fuggire, che odia fin dal profondo, poiché le impone determinate regole, delle quali però l’intera umanità non è a conoscenza. Infatti solo coloro che sono dovuti entrare in quel luogo maledetto possono conoscere quelle tavole della legge. Il manicomio, perciò, provoca dolore e disperazione nell’animo di Alda, dal quale lei stessa sa che non può fuggire, poiché legata a questo luogo fin dalla gioventù. Molti pensano che entrare in questo luogo possa essere la “cura” al problema. Non è così. Non esiste nessuna cura per alcun problema. L’unico modo è imparare a conviverci o arrendersi. A volte qualcuno potrebbe pensare che arrendersi sia la via più facile, quella più giusta. Farla finita dicono… E a quel punto però dovrebbero chiedersi: “A cosa sono serviti tutti questi anni passati? Per cosa ho combattuto? Per cosa sto combattendo? Se avessi voluto arrendermi sarebbe stato più facile farlo fin dall’inizio, no?” Ecco, probabilmente penserebbero questo. Ma nessuno può giudicare la sofferenza che l’Altro prova. Imparare a convivere con la malattia, non curarla. Vivete ogni attimo poiché non ce ne saranno più di quel genere. Le malattie non sono punizioni divine o qualsiasi altra roba. La malattia siamo noi. Siamo incurabili, ma va bene così.
Ed è proprio dal significato della poesia che poi nasce la sua metrica. Una metrica lenta e cadenzata, la quale dà peso alle parole attraverso un linguaggio preciso, diretto e profondo. I versi sono di differente lunghezza, ma tutti brevi e con termini che sono isolati ed in risalto. Attraverso questa struttura la poetessa vuole dare maggiore importanza alle parole del primo verso, ma allo stesso tempo non vuole neanche sminuire quella dei versi seguenti. Come già detto in precedenza, di proposito la Merini decide di non seguire alcuna regola, scelta che le permette di non inserire neanche le rime, le quali potrebbero dare maggiore musicalità al testo, ma non è quello che la scrittrice vuole trasmettere. La poesia parla di dolore, odio, non necessita di musicalità. Invece, la presenza di figure retoriche di significato è abbondante. Esse hanno il compito di dare maggiore profondità e significato alla poesia: la metafora, utilizzata al fine di paragonare determinati luoghi ed immagini a quello che prova la scrittrice, come per esempio “il manicomio è una grande cassa di risonanza”, “il manicomio è il monte Sinai”; oppure “il delirio diventa eco”, “l’anonimità misura”, “le tavole di una legge agli uomini sconosciuta”.
Il manicomio è un testo che a primo impatto può sembrare difficile, forse incomprensibile. È proprio questo quello che voleva la scrittrice. Alda è riuscita in pochi versi a descrivere quello che è stato per lei un luogo di grande dolore, e con una semplicità ma allo stesso tempo una complicatezza che rendono intrigante un testo di tale genere. Se ci si pensa, questo testo è un po’ come le persone. A primo impatto sembra impossibile comprenderle e quindi a volte abbandoniamo l’idea di addentrarci dentro la loro mente, ma nel momento in cui comprendi il loro pensiero, le loro idee, ti si apre un mondo, tutto sembra così facile e affatto complicato che ti ci perderesti per ore, nell’esplorare un qualcosa a te sconosciuto e a cui non ti sei mai approcciato. Il più grande dono dell’uomo è la curiosità, e non bisogna esserne mai sazi.
A cura di Mattia Fava e Thomas Mioso, 2G
“Una volta sognai” di Alda Merini
Una volta sognai di essere una tartaruga gigante con scheletro d’avorio che trascinava bimbi e piccini e alghe e rifiuti e fiori e tutti si aggrappavano a me, sulla mia scorza dura. Ero una tartaruga che barcollava sotto il peso dell’amore molto lenta a capire e svelta a benedire. Così, figli miei, una volta vi hanno buttato nell’acqua e voi vi siete aggrappati al mio guscio e io vi ho portati in salvo perché questa testuggine marina è la terra che vi salva dalla morte dell’acqua
Uno dei componimenti più significativi sul tema dei rifugiati è sicuramente “Una volta sognai”, scritta da Alda Merini, una delle più importanti e amate poetesse italiane, nata il 21 marzo 1931 a Milano e morta nel 2009 sempre a Milano. La sua vita non fu facile, infatti fu ricoverata più volte all’interno di diversi manicomi per curare i suoi disturbi di bipolarità, ma la sua passione per la scrittura, che iniziò già all’età di 15 anni, non si spense mai, nemmeno durante il suo periodo buio di cura.
Questa poesia tratta un argomento di cui si sente parlare poco e un problema che molte persone preferiscono ignorare, ovvero le numerose difficoltà affrontate dai migranti in cerca d’asilo.
La donna immagina quindi di essere una grande tartaruga che con il suo “scheletro d’avorio” e la sua “scorza dura” porta in salvo uomini, donne e piccini che giungono sulle coste di Lampedusa portando nel cuore la speranza di una vita migliore e serena con i propri cari.
A nostro parere, Alda Merini ha deciso di affrontare un argomento così delicato e importante a causa del suo triste passato che l’ha costretta a lunghi momenti di solitudine e di crisi interiore colmati dalla poesia.
La poetessa scrisse questa poesia in occasione della costruzione della Porta d’Europa e venne letta per la prima volta proprio durante l’inaugurazione, il 28 giugno 2008.
Dal punto di vista metrico, la lirica è composta da tre strofe (rispettivamente eptastica, quartina e ottava), di 19 versi liberi e sciolti, ovvero non legati da rime.
Nella poesia troviamo diverse figure retoriche, in particolare gli enjambement e un polisindeto. Ma la più significativa è la metafora ai vv. 8-11: “Ero una tartaruga che barcollava / sotto il peso dell’amore / molto lenta a capire /e svelta a benedire”, che rappresenta ricorda tutti i migranti i quali, dopo lunghe ore di viaggio, arrivano sull’isola di Lampedusa attraverso mezzi di fortuna. Essi, sprovvisti di tutto, abbandonano la propria terra portando nel cuore la speranza di trovare una vita migliore.
Pertanto la tartaruga che barcolla sotto il peso dell’amore rappresenta la speranza di salvezza a cui si aggrappano i profughi per sfuggire dalla miseria.
L’Io lirico corrisponde all’autrice, mentre l’interlocutore sono i migliaia di migranti in cerca d’asilo.
Nella prima strofa, Alda Merini ci racconta del suo sogno nel quale immagina di essere una tartaruga per portare in salvo tutti coloro che si aggrappavano alla sua corazza.
Questa strofa è una metafora in cui lei rappresenta la barca che porta in salvo tutti coloro che fuggono attraverso il mare, mentre “bimbi, piccini, alghe, rifiuti e fiori” rappresentano i migranti in cerca di una vita migliore altrove. In questa strofa notiamo la grande sensibilità di Alda Merini sul tema dei rifugiati ma anche la forza e il rispetto nei confronti della Natura.
Nella seconda strofa invece la poetessa, “barcolla sotto il peso dell’amore” poiché rappresenta la speranza di questi migranti che sperano di riuscire a giungere sulla terra ferma, per crearsi una vita migliore insieme ai propri cari e alle persone da essi amate. Questa cosa non era scontata poiché molto spesso essi morivano inghiottiti dal Mediterraneo che non sempre ha espresso pietà verso queste persone.
Nella terza strofa Alda Merini si rivolge ai migranti con affetto chiamandoli “figli miei” in segno di vicinanza e protezione, comportamento caratteristico di una madre. In questa strofa vediamo la dolcezza della poetessa che appoggia i migranti cercando in tutti i modi di dare loro speranza, fiducia e coraggio.
A cura di Aurora Gallo e Camilla Rossato, 2G